Babilonia
“Babilonia” era l’insegna di un negozio in via Farini gestito da due zitellone.
Le scaffalature, lungo le pareti, contenevano bindei, gùcc, filfort, ruchett de cùsìi per la Singer,
gùcc per la lana, butun, foder… insomma tutto ciò che serviva a una dona de cà per diventà una mezza sarta. Ed in un grande caos, de roba e de gent, si trovava tutto.
Allora, nel dopoguerra, il “guardaroba” si cambiava raramente: se scurtava il vestito del figlio grande e
lo si passava al fratello minore, si accorciavano o si allungavano i pantaloni, si riparavano gli strappi e il paltò del papà, rivoltato, era per il figlio grande.
La signora che aveva una meravigliosa Necchi o Singer l’era tegnuda bona dalle vicine e con il sciura Maria per piesé ogni tanto ne approfittavano per piccoli lavoretti.
A me, negli anni ’50, regalarono una bella giacca e il sarto che me la adattò mi chiese “A l’è per tì? Ma te ghet el curacc de purtala in gir?” : era un bellissimo spigato bianco e nero ma a quel tempo gli abiti erano in tinta unita, colori seri per uomini seri.
Nei paesi il colore dominante del vestito “della festa” era il blu scuro. Quando gli uomini uscivano per la passeggiata pomeridiana, spiccava sul bavero di qualcuno una grana de ris, evidenziando a tutti che quel giorno si era mangiato il risotto ma anca el pan bianc e no quel de mej. Il pane avanzato, i mursei, si restituiva al prestinèe.
Ai temp indree, senza parlare degli anni di guerra, io mi accontentavo di poco sia nel vestire che nel mangiare, mentre oggi firmano anche l’acqua minerale.
Mi gavevi nagott … e sunt chi ancamò: novantatre primavere!