Il fungo cinese
Le ragazze e i ragazzi che hanno, più o meno, la mia età (quella dei datteri) ricorderanno che nella metà degli anni cinquanta, di colpo, nella maggior parte delle case, sui mobili della cucina o del tinello si videro troneggiare grandi vasi di vetro trasparente, dentro i quali cresceva una mostruosa creatura giallastra: “il fungo cinese”.
Da dove venisse è un mistero, di cosa si trattasse, è presto detto. Intanto, non era un fungo, ma una associazione di microrganismi che prosperavano in soluzioni di tè, o comunque zuccherine, dando vita a masse mucillaginose secondo un processo che assomigliava molto da vicino a quello che origina la madre dell’aceto.
I “credenti” ritenevano questo liquido un toccasana per (quasi) tutte le malattie: ricostituente, depurativo, rigenerante, dimagrante. Nessuna dieta particolare era consigliata durante il periodo della cura; veniva però suggerito (ahia!) di sospendere qualsiasi altra terapia. Inoltre chi lo usava non doveva assolutamente dire al proprio medico curante che le ricette che aveva prescritto erano state sostituite dal “fungo cinese”.
Ogni giorno il liquido veniva versato senza toccare il fungo, filtrato attraverso una tela e bevuto in dosi variabili: a mia memoria, mia nonna e le sue amiche, ne bevevano una tazza, un chicherott. Ogni quattro settimane il fungo e il recipiente che lo conteneva andavano lavati con acqua corrente e il tè interamente cambiato.
Speciali regole venivano imposte nell’uso e nell’ingerimento della bevanda: le istruzioni venivano trasmesse col passaparola, così come il fungo stesso, che col tempo cresceva sempre più e veniva quindi diviso in quattro parti con un attrezzo, una specie di coltello rigorosamente di legno: una da tenere e le altre tre da regalare a persone amiche. Il bello è che tutti coloro che si dedicavano entusiasticamente alla pratica, ed erano per la maggior parte donne di mezza età, non avevano la più pallida idea delle virtù terapeutiche attribuite al beverone, vagamente disgustoso, che stavano ingurgitando. Interrogate sul punto, la maggior parte rispondeva, stringendosi nelle spalle, che lo bevevano perché “el fa ben”.
Più avanti, con la stessa rapidità con la quale si era diffuso, scomparve dalle case degli italiani, e il vaso di vetro che lo aveva ospitato venne destinato ad altri usi.
Oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, se non vi fosse la testimonianza, oltre che della canzone di Carosone, anche della tavola di copertina disegnata da Walter Molino per la Domenica del Corriere del 19 dicembre 1954, si potrebbe pensare che il fungo cinese non sia mai esistito. Anche se, visto il propagarsi della medicina alternativa, non si può neppure escludere che prima o poi ricompaia sotto mentite spoglie.