Il mercato di Porta Genova
Il piazzale Antonio Cantore si trova tra il corso Genova e il viale Papiniano. Negli anni ’40 e ’50 un tratto di naviglio scoperto occupava lo spazio sul quale ora risiedono i magazzini COIN. Lo spazio antistante al naviglio era sede di un mercato, la maggior parte erano bancarelle di frutta e verdura, ma ce n’erano anche un paio di scarpe e vestiti. Contrariamente a quanto succede oggi, che i mercati rionali hanno cadenza settimanale, questo stazionava in zona dal lunedì al sabato. Questi commercianti, che venivano dalle campagne intorno a Milano, erano i principali fornitori di generi alimentari della mia famiglia. Quando, ancora, non andavo a scuola, tutti i santi giorni, con la pioggia o col sole, col freddo o col caldo, alle nove del mattino mia nonna ed io partivamo da corso Ticinese, con la sporta di paglia in una mano e tenendo la mia mano con l’altra , di buon passo, dopo aver percorso via De Amicis, corso Genova e un pezzo di corso Cristoforo Colombo, quasi un chilometro, arrivavamo in piazza Cantore.
Il mercato era un arcobaleno di colori che variavano secondo la stagione, perché la frutta e la verdura venivano tolte dalle cassette e versate sui pianali delle bancarelle formando dei cumuli che sfidavano le leggi di gravità. Per completare la coreografia, a tutto questo, si aggiungevano le grida dei commercianti che imbonivano le massaie a comprare la loro merce. “Donne fasì cuntent i voster marì purteg a cà la mugnaga dulsa”, “Hin chì i fic cun la guta”, “I mè narans in bej m’el sù” e via con queste perle di saggezza contadina.
Facevamo i nostri acquisti e ritornavamo a casa, sempre di buon passo, con la sporta che a volte pesava quasi dieci chili. Il mese che più gradivo andare al mercato era febbraio perché, nel periodo di carnevale, su tutto il viale Papiniano veniva allestito un immenso luna park che allora era semplicemente denominato “i giuster” (le giostre).
Proprio davanti al mercato installavano la mia preferita “i barchett”. Se le cose giravano nel verso giusto riuscivo a fare uno o due giri, dopo settimane di suppliche e promesse. Mentre le barchette giravano in tondo sfiorando l’acqua e dagli altoparlanti uscivano le note di “Rosamunda” io, felice, immergevo la mano e mi lasciavo trasportare dalla fantasia.
Erano sogni di bambino ma erano importanti, se li ricordo ancora adesso.