Il veglione di capodanno
Quando si avvicinavano le feste di Natale, negli anni cinquanta, per noi ragazzi quello che contava era organizzare il veglione di capodanno.
Anche allora a Milano c’erano locali bellissimi che offrivano cene, balli, ricchi premi e cotillon, ma il costo dell’ingresso, per chi come me era figlio di operai, era una cifra proibitiva e così ci si orientava verso il raduno in casa di qualcuno.
Primo problema era trovare il locale dove organizzare la festa; quasi tutti abitavamo in case piccole senza possibilità di ospitare più di dieci persone, se stavano sedute, se poi si mettevano a ballare dopo pochi minuti l’inquilina del piano di sotto si presentava in camicia da notte alla porta a reclamare il silenzio, inoltre, per essere ancora più liberi, preferivamo evitare la presenza dei genitori.
Per fortuna il nostro amico Alberto aveva un laboratorio di legatoria che, spostando qualche tavolo e qualche scatolone, si prestava benissimo alla bisogna; inoltre non c’erano le lamentele della vicina perché era un seminterrato.
Trovato il locale partivano gli incarichi per chi doveva procurare le bevande, i panini, le paste mignon, il panettone e la bottiglia di spumante per mezzanotte. La cosa più impegnativa era trovare le ragazze che potevano restare fuori fino all’una di notte.
Dopo lunghe telefonate, interminabili passaparola e accorati discorsi di convincimento ai genitori, finalmente riuscivamo a radunare il gruppo dei partecipanti.
Io sono quello in centro con la camicia bianca
Cosi, al trentuno di dicembre, entravamo nel seminterrato con giacca e cravatta come fossimo diretti alla Capannina di Forte dei Marmi e con la musica dei dischi portati da casa, abbracciati più o meno stretti alle ragazze, scambiando nella penombra qualche ingenuo bacetto entravamo nel nuovo anno pieni di gioia e di voglia di vivere.