La gita a Como
Era uso e consuetudine, nella mia famiglia, una volta all’anno, fare una gita. Era il massimo che ci potevamo permettere appena finita la guerra. La gita era riservata alle donne, non ho mai capito perché gli uomini non partecipassero, ed io, essendo l’unico bambino della famiglia, partecipavo di diritto. La meta era sempre Como e, poi, da lì ci si spostava nei paesi vicini. Vi racconto quella che, a mia memoria, è stata l’ultima. I preparativi iniziavano parecchio tempo prima. Primo, c’era da stabilire il giorno, sempre di domenica; secondo, i partecipanti, quasi sempre gli stessi: mia nonna, mia zia, mia madre e l’immancabile Angelina e, raramente, un’amica di famiglia; terzo, il menù da preparare, anche quello quasi sempre lo stesso. Il giorno prima era un fervore di preparativi, dagli abiti da mettere alla preparazione dei viveri: cotolette alla milanese, uova sode, terrina con pomodori e peperoni già tagliati, bottiglia con olio e aceto già mischiati, pacchettino col sale fine, formaggio, frutta e biscotti (come dessert), tovaglia da distendere sul prato e
tovaglioli di cotone, quelli di carta non erano, ancora, stati inventati. Il pane no, quello lo si comprava a Como, perché “l’è pussè bun de quel de Milan”, cosa che personalmente non ho mai condiviso.
Domenica mattina sveglia alle cinque, raccolta delle vettovaglie e alle sei raduno davanti al portone. Partenza, a piedi perché i tram, a quell’ora, non avevano ancora preso servizio, verso la stazione Nord. Il gruppo procedeva di buon passo, in silenzio per non disturbare quei che dormen ancamò. Il cielo era nuvolo ed io lo feci notare alle donne le quali mi risposero “dopu el cambia”. Giunti alla stazione comprammo il biglietto, di terza classe – allora c’era – per Como. Piccola discussione col bigliettaio per decidere se io dovessi pagare, mia nonna diceva di no, perché ero piccolo, il bigliettai diceva di si, alla fine si giunse al compromesso di farmi pagare mezzo biglietto. Saliti sul treno mia nonna ricevette i complimenti della compagnia per l’operazione risparmio (cit. “sem minga chì a regalag i danè a la feruvia”). Quando il treno si mise in movimento ed uscì dalla stazione il tempo cominciò a cambiare, come previsto, ma in peggio. La pioggia bagnava il finestrino ed io, con l’aspetto sempre più cupo, cominciavo ad inveire, dentro di me, contro il responsabile del tempo. Le donne guardavano fuori, scherzavano e ridevano, forse per esorcizzare il maltempo, e dichiaravano “mei! inscì viagium cul fresc, comunque a Com piuarà pù”. Contro ogni previsione, a Como, la pioggia era aumentata d’intensità e le organizzatrici si accorsero che, in tutta l’attrezzatura che si erano portate, non era stato inserito uno straccio di ombrello. Ci coprimmo alla bell’e meglio con indumenti occasionali, berretto di tela per il sole, foulard, qualche tovagliolo e così agghindati comprammo il pane, che l’è pussè bun che a Milan. Anziché andare a piedi sulle colline di Como, come era stato programmato, pensammo di prendere la corriera in modo da evitare di inzupparci ulteriormente. Al momento di prendere il biglietto, altra discussione col bigliettaio sull’opportunità di esentarmi dal pagamento, e mia nonna, mettendomi una mano sulla testa e spingendomi verso il basso, tentava di dimostrare che non ero alto abbastanza per pagare. Il bigliettaio, visto che la discussione l’avrebbe impegnato per tutta la mattinata, accettò la dimostrazione. Giunti a destinazione, la pioggia era quasi cessata, ci inoltrammo per una strada sterrata che attraversava un boschetto, penso che conoscessero il percorso, probabilmente era lo stesso che facevamo tutti gli anni.
La strada, causa la pioggia, era fangosa e mia zia cominciò a lamentarsi del fatto che le si rovinavano le scarpe, mia nonna – sua mamma- commentò che “a chela lì ghe va mai ben gnent”. L’Angelina si tolse le scarpe dichiarando che lei camminava meglio a piedi nudi, in realtà voleva salvaguardare l’unico paio di scarpe che aveva.
Anche io, preso dall’entusiasmo, tentai di togliermi le scarpe ma, una sberla di mia nonna mi rimise in posizione di marcia con le scarpe allacciate. Visto che il gruppo aveva ripreso il buonumore e procedeva cantando, Giove pluvio pensò bene di calmare l’entusiasmo facendo ricominciare a piovere.
A quel punto mia nonna propose di andare a cà de la Sandra. La Sandra era una vicina di mia nonna che, potendo economicamente permetterselo, durante la guerra era sfollata e, trovandosi bene, aveva deciso di prolungare il soggiorno. La proposta venne condivisa con entusiasmo da tutti. La cà de la Sandra era una cascina con tanto di stalla, galline e maiale, che distava circa un chilometro e quando arrivammo il nostro stato era, a dir poco, pietoso. Mia nonna, mia zia e mia mamma erano inzuppate fino alle ossa, i capelli, che ormai avevano perso ogni traccia di permanente del giorno prima, gocciolavano lisci sulle spalle; l’Angelina, che aveva i capelli ondulati di natura e con la pioggia erano diventati ricci e crespi, sembrava una marocchina con la pelle schiarita. La Sandra, quando ci vide, ci accolse con lo stesso entusiasmo col quale avrebbe accolto l’agente delle tasse, ma, facendo finta di essere dispiaciuta del nostro stato, ci permise di
accamparci sotto la tettoia del fienile, dove ghera la trumba de l’acqua. Sistemata sulle balle di paglia la tovaglia e le vettovaglie, le uniche cose rimasta asciutte, mangiammo, con ritrovato buonumore, anche perché stava facendo capolino un pallido sole.
“L’ù dì mì che’l cambiava” dichiarò mia nonna, ma, guardando il cielo, non sembrava così sicura. Quando giunse l’ora di tornare salutammo la Sandra ringraziandola per l’ospitalità e promettendo di tornare a trovarla l’anno dopo. La Sandra, assistita da un odioso cagnetto che continuava ad abbaiare, finse di essere contenta ma, in cuor suo, sperava che perdessimo la strada. A quel punto io espressi il desiderio di non tornare a Como con la corriera ma col traghetto, sul lago, idea sostenuta vivamente anche dall’Angelina e da mia zia. Deciso per il traghetto partimmo, in discesa, verso il lago e, manco a farlo apposta, ricominciò a piovere. Giungemmo all’imbarcadero in condizioni deplorevoli, silenziosamente commiserati dal gruppo di persone che già aspettava il traghetto. Comprammo i biglietti e io venni esentato dal pagamento, probabilmente i bigliettai si erano già passati la voce. Quando giunse, il traghetto era già abbondantemente affollato e, siccome, nessuno stava sul ponte, sotto la pioggia, nella zona coperta c’era posto in piedi stipati come sardine. Inoltre , dato il carico elevato, la linea di galleggiamento era a filo del ponte e le onde, spinte dal vento, bagnavano i finestrini. Io e l’Angelina ci divertivamo molto, mia nonna aveva lo stesso umore di un passeggero del Titanic un’ora dopo l’urto con l’iceberg.
Raggiunto Como e preso il treno ritornammo a Milano dove ci accolse uno splendido sole. Giunti a casa gli uomini chiesero come era andata, mia nonna rispose “èm ciapà un pù d’acqua ma l’è stà bel”; ma, dato il nostro aspetto, ho l’impressione che non ci abbiano creduto.
Da quel momento ho cominciato a capire perché gli uomini si erano sempre rifiutati di partecipare alla gita annuale.