Il randagio
Durante l’ultima guerra le persone non avevano vita facile, figuriamoci gli animali domestici.
I gatti dovevano stare molto attenti a non venire scambiati per conigli perché, in tal caso, finivano in padella allietando la mensa di qualche famiglia numerosa di bocca buona.
I topi, allora numerosi per la disattenzione dei gatti, erano meno ricercati dalle massaie ma, per la scarsità di cibo, non era difficile che si dedicassero al cannibalismo.
I cani erano i meno fortunati perché, anche rovistando fra i rifiuti, era molto difficile che trovassero qualcosa di commestibile.
Un giorno nel nostro cortile comparve un cane, evidentemente un randagio, uscito illeso dalle macerie di qualche casa demolita dalle bombe. Aveva un aspetto deperito con le costole in bella evidenza, zoppicava ed era percorso da un continuo tremore.
Per noi ragazzi fu una ventata di novità nel grigiore del tran tran quotidiano e malgrado la portinaia tentasse di allontanarlo alla fine si rassegnò alle nostre richieste di adottarlo. Decidemmo di chiamarlo “Bumbarda”. E qui cominciò il nostro impegno per portare qualcosa da mangiare a questa povera bestia. Ognuno di noi si presentava con ciò che era riuscito a racimolare in cucina: croste di formaggio, pane secco immangiabile per gli umani, pezzi di polenta vecchia di giorni, patate lesse e, molto raramente, ossa di pollo.
Quel cane mangiava tutto senza fare lo schizzinoso, un giorno mangiò anche una terrina di insalata condita con solo aceto senza battere ciglio. Aumentò di qualche etto, smise di tremare e divenne allegro e festoso con tutti.
Finché un giorno scomparve, senza salutare nessuno, probabilmente aveva ricuperato le forze per tornare da dove era venuto. Dopo averlo cercato a lungo ci rendemmo conto che il nostro “Bumbarda” aveva ripreso la sua libertà. Qualcuno commentò ”Cunt quel che ghe davum de mangià l’è scapaà disperà”.
In realtà, col poco che avevamo, abbiamo salvato la vita a quel randagio e di questo eravamo orgogliosi.