A noi bastava un pallone
Nonostante abbia raggiunto l’età dei datteri, ricordo ancora molto bene, e con nostalgia, come ci divertivamo da ragazzi.
A quel tempo bastava un pallone, ad esempio, perché non esistevano l’iPhone, il tablet, il computer, la Play Station e tutte quelle diavolerie, che gli adolescenti di oggi utilizzano in modo ossessivo, maniacale, tanto da esserne diventati, a parer mio, quasi schiavi.
Al posto di questi marchingegni tecnologici, avevamo altre cose, molto più semplici per stare insieme, per divertirci e anche per combinarne una più di Bertoldo.
Avevamo le biciclette, le cannette dei pedrieu (i bussolotti), i cichett (le biglie), i mastaritt (le figurine) e la lippa.
Fra tutte queste cose, in cima alla lista c’era el balon, il pallone da calcio.
Di solito si trattava di un pallone di plastica, più o meno robusto, che aveva il grande difetto di sgonfiarsi in poco tempo oppure di bucarsi con una certa facilità, specialmente quando qualche comare del cortile lo colpiva violentemente con una forbice appuntita.
Le matrone mal sopportando il nostro schiamazzo e temendo soprattutto per l’incolumità delle loro finestre, si affacciavano al balcone e, riferendosi al pallone, urlavano; s’el ciapi v’el sbusi. Naturalmente nulla potevano sin tanto che il pallone era nelle nostre mani, ma quando, per ironia della sorte, la sfera entrava balzellon balzelloni in casa loro, passando attraverso il vetro di una finestra chiusa, ecco che potevano finalmente dare sfogo ai loro peggiori istinti, accanendosi con forbici e coltelli sull’incolpevole balon.
Tutto questo terminò quando ebbi la fortuna di ricevere in dono il primo pallone di cuoio, grazie ai punti delle figurine della Mira Lanza che mia mamma buonanima aveva raccolto con certosina passione.
Erano delle figurine con l’Olandesina, testimonial, come direbbero oggi, dei prodotti di una nota azienda italiana che produceva saponi e detersivo e si potevano trovare in tutte le confezioni di Ava.
Per noi, cresciuti a pane e Carosello, il pulcino nero Calimero che si rivolge a una giovane lavandaia in costume olandese, pronunciando la celebre frase “Ava come lava”, è un ricordo indelebile, così come lo sono la brillantina Linetti, l’Ovomaltina e i biscotti Plasmon.
Torniamo al balon.
Era un involucro di cuoio che aveva al suo interno una camera d’aria. Gonfiandola si otteneva un pallone dall’aspetto quasi sferico.
Il procedimento usato per la gonfiatura era il seguente.
Si estraeva, da una piccola apertura, una specie di beccuccio di gomma, vi si introduceva la pompa della bicicletta e si pompava.
Una volta terminata l’operazione, si reintroduceva il beccuccio all’interno e si chiudeva l’apertura con una legatura, detta stringa, perché era in tutto e per tutto simile alle stringhe delle scarpe, et voilà, ecco il pallone.
Il cuoio di allora non era certamente come quello di oggi: leggero, liscio e soprattutto idrorepellente. Macché. Era piuttosto grezzo e aveva due strane proprietà; quella di calamitare su di sé tutto il fango possibile e immaginabile nonché quella di assorbire l’acqua come una spugna.
Quando lo utilizzavamo su terreni pesanti, iniziavamo la competizione con un pallone che pesava circa 500/600 grammi, poi, durante la gara, acqua e fango ne modificavano peso e aspetto, tanto che alla fine calciavamo un ammasso informe di cuoio e fango che superava abbondantemente il chilogrammo di peso.
Per non parlare dei colpi di testa.
Impattare con la fronte sulla famigerata stringa, significava portare ben visibili per alcuni giorni, i segni di quel gesto atletico.
Non appena lo videro le bisbetiche del cortile si convinsero che quella sfera sarebbe uscita indenne da ogni loro ritorsione con forbici e coltelli, e allora dopo essersi riunite in gran consiglio, ci obbligarono ad andare a giocare nel campetto, un appezzamento di terra che si trovava appena fuori dal cortile.
Era un campo di terra battuta, polveroso come il deserto del Sahara d’estate, una risaia vietnamita nei mesi invernali e piovosi.
Cominciavamo a giocare verso le 2 del pomeriggio e terminavamo quando l’aria iniziava a profumare de risott e de minestron. Praticamente all’ora di cena.
Epiche le sfide con ragazzi di altre corti, specialmente con quelli che abitavano nel cortile vicino al nostro, che noi chiamavamo “quelli del 23”.
Noi adottavamo un modulo molto semplice, altro che 4-3-1-2, 3-5-2, 4-4-2 ecc.
Il nostro era il modulo corr adrée al balon, che tradotto significa vai dove c’è la palla.
Se la palla era avanti, tutti avanti, se era indietro tutti indietro.
Lo posso tranquillamente affermare; i concetti di squadra corta, pressing e calcio totale, li abbiamo inventati noi.
Io giocavo in difesa.
Non ero certamente quello che si potrebbe definire un top player, un fuoriclasse, anzi come calciatore ero veramente scarso. Quando i miei compagni mi vedevano con il pallone tra i piedi urlavano “trala via cunt una pesciada”, nel senso che era inutile aspettarsi da me un passaggio o una giocata, però come difensore ero un baluardo insuperabile.
Anche se non ero molto bravo nell’anticipo, entravo spesso fuori tempo, vi assicuro che i miei tackle non andavano mai a vuoto.
A volte prendevo la palla, il più delle volte la caviglia, la tibia o il perone, pasiensa, l’unica cosa che contava per me era prendere qualche cosa.
Proprio per queste mie doti tecniche, i miei amici e soprattutto gli avversari, mi avevano affibbiato il soprannome calcistico di scarpon, scarpone.
L’incauto avversario che osava entrare nella nostra area, era ben conscio dei rischi che correva e non doveva quindi lamentarsi per i segni che le mie maschie entrate gli avrebbero lasciato su stinchi e caviglie.
Del resto, anche illustri calciatori come Tagnin, Furino o Stiles hanno basato le loro fortune calcistiche sulle medesime “qualità”.
Spesso guardando le finte di Messi, i dribbling di Neymar o il doppio passo di Cristiano Ronaldo, commento: “Basterebbe un’entrata delle mie per farti passare la voglia di fare quei giochetti”.
Una volta, un avversario al quale avevo dedicato particolari attenzioni, cercò di appendermi ad una cancellata.
Fortunatamente intervennero i miei amici, salvandomi da quell’esecuzione sommaria.
Nonostante tutto questo, ero titolare inamovibile in qualunque formazione.
Avevo sempre il posto fisso in squadra. Bella forza il pallone era il mio. Via me, via il pallone e addio partita.
Torniamo alle sfide con “quelli del 23”.
Fra loro spiccava Franchino, un ragazzo che giocava veramente bene.
Era d’indole buona, mite e tranquillo e per questo ere la mia vittima preferita. Povero Franchino, quante pesciad ha preso dal sottoscritto.
Ricordo anche il loro portiere.
Nessuno ha mai saputo, quale fosse il suo vero nome. Tutti noi lo conoscevamo semplicemente come Pomito.
Il perché di quel soprannome resta tutt’oggi un mistero. Il terzo mistero di Niguarda.
Forse glielo affibbiarono perché era ghiotto della celebre passata di pomodoro o forse perché era di origini meridionali. Chissà.
Fra gli avversari c’era anche Giorgione, un tizio chi io chiamavo metro cubo perché era di statura bassa e di girovita largo.
Queste epiche sfide terminavano sempre dopo alcune ore di lotta furibonda con punteggi tennistici, escoriazioni e contusioni varie e anche con qualche paio di calson strascià.
Nonostante tutto, ci lasciavamo in amicizia dandoci appuntamento per il giorno dopo.
Ancora oggi ricordo con grande nostalgia quelle interminabili partite di calcio, a volte mi sembra addirittura di riviverle.
Un gruppo di ragazzi che inseguono un pallone nella polvere o nel fango.
Felici dopo un gol o sacramentando per un’entrata particolarmente dura.
Ecco, adesso sapete come ci divertivamo senza iPhone, tablet, computer Play Station, alcool, pasticche o altre porcherie similari.
A noi bastava un pallone, quel pallone che mia mamma aveva vinto grazie ai punti della Mira Lanza.